... Il segreto dell’evoluzione darwiniana delle macchine è una bicicletta?
Al London Science Museum è possibile ammirare la Rover safety bicycle originale del 1885, la prima bicicletta moderna sostanzialmente uguale a quelle di uso comune ancora oggi. Grazie alle pubblicità dell’epoca conosciamo anche il prezzo: dodici sterline (circa 1.500 sterline di oggi attualizzando con il costo della vita ma, in realtà, molto di più considerando la distribuzione della ricchezza). La Rover, la stessa società che produce automobili, iniziò così la propria storia, anche se l’idea stessa di bicicletta, nomenclatura a parte, nasceva ben prima, nel 1817. Lo sviluppo della bicicletta aveva già raggiunto una sua prima maturità con diversi salti tecnologici. E le cronache dell’epoca ci permettono di parlare di un primo boom commerciale già negli anni sessanta e settanta dell’Ottocento. Ma è interessante andare ad analizzare cosa accadde alle cosiddette «penny-farthing», quelle biciclette con una ruota posteriore molto piccola e quella anteriore abnorme (il nome viene dal confronto con le due monete inglesi, il penny e il minuscolo conio farthing dell’epoca). Di fatto, utilizzando il linguaggio della biologia, si trattava di esemplari della stessa specie: due ruote in asse, stessa funzione e anche stessa tecnologia, quella dei pedali, aggiunta dalla Michaux et Cie nel 1861. Eppure nel giro di pochissimo, una sola generazione commerciale, le «penny-farthing» si estinsero, letteralmente. Il nome della prima bicicletta moderna, safety bicycle, una sapiente trovata di marketing, spiega il perché.
I precedenti esemplari della specie bicicletta non solo erano inefficienti, ma risultavano anche estremamente pericolosi. Gli incidenti erano un’occupazione quotidiana dei giornalisti dell’epoca. Le cronache e i dibattiti cittadini se ne occupavano spesso. Nel 1869 il Conte Giulio Belinzaghi, al tempo sindaco di Milano, ne vietava l’uso all’interno della cerchia dei Navigli. Le «cavalcature d’acciaio», copyright dei giornali di allora, spaventavano e ferivano i pedoni. Non sappiamo se Charles Darwin (1809-1882) abbia mai visto dal vivo una bicicletta. Ma una bicicletta di Darwin esiste: è quella dell’evoluzionismo tecnologico. Se ne era accorto anche un contemporaneo del naturalista di Cambridge: Samuel Butler. Celato sotto lo pseudonimo di Cellarius, Butler fu l’autore dell’articolo «Darwin among the machines», Darwin tra le macchine, pubblicato nel 1863 sul giornale neozelandese The Press, solo quattro anni dopo l’uscita de «L’origine delle specie» (1859). I passaggi, sviluppati poi per il libro anonimo «Erewhon» (stesse lettere di Nowhere, da nessuna parte), appaiono ancora oggi inquietanti per la capacità di anticipare i dibattiti, tanto che se ne dovrebbe considerare la riedizione ragionata: «Ci riferiamo alla domanda: quale tipo di creatura sarà probabilmente il prossimo successore dell’uomo nella supremazia della Terra? Abbiamo sentito spesso discuterne, ma ci sembra che stiamo creando noi stessi i nostri successori, (...) diamo loro ogni giorno un potere maggiore e forniamo con ogni sorta di ingegnosi congegni quel potere autoregolante e autoagente che sarà per loro ciò che l’intelletto è stato per la razza umana. Nel corso dei secoli ci troveremo la razza inferiore». Sempre in questo testo Butler anticipa anche l’ipotesi che, grazie al processo darwiniano, le macchine possano sviluppare nel tempo una propria coscienza e auto-riprodursi.
La storia e i ragionamenti dello stesso Butler implodono in realtà in un violento luddismo, tanto che «Erewhon» è un mondo dove tutte le macchine degli «ultimi 300 anni» sono state distrutte e la riflessione sulla necessità di bloccare la singolarità ante litteram, cioè il superamento della specie macchina sulla specie umana, viene scovata dal protagonista in un vecchio libro denominato «Book of the machines» (un libro nel libro, classico trucco da scrittori). Inoltre, secondo alcuni critici, l’opera di Butler è una parodia mascherata dell’era vittoriana e della fiducia riposta nella rivoluzione industriale. Questo nulla toglie alla felice intuizione dell’autore di usare l’evoluzionismo come chiave interpretativa dello sviluppo tecnologico. Dall’abaco ai supercomputer e agli attuali risultati del machine learning, la tentazione di affidarsi al darwinismo tecnologico è alta. Dai segnali di fumo a Internet le suggestioni appaiono infinite. Ma se l’applicazione di questo schema appare affascinante nel caso dell’intelligenza artificiale — dove però c’è il pericolo che il dibattito sia più emotivo che scientifico — la sua efficacia risulta più chiara e meno a rischio di ideologismi proprio con la storia delle due ruote. La bicicletta è un esempio di adattamento continuo e di sottospecie che muoiono mentre altre emergono, trasmettendo la propria superiorità «genetica».
Inventata, com’è noto, dal conte Drais nel 1817 (un esempio di geniale «ricerca applicata»), la bici affrontò il primo salto di specie nel 1861 con Pierre Michaux, un fabbro francese che ebbe l’intuizione di aggiungere i pedali. La vecchia draisina, che richiedeva ancora un faticoso e poco redditizio uso della spinta delle gambe come forza motrice diretta, si avviò così verso l’estinzione veloce, rimanendo solo come giocattolo per i bambini. Il modello «penny-farthing» determinò il primo vero boom del mezzo. Fino all’arrivo del modello Rover che, grazie alla trasmissione della catena, non richiedeva più una ruota enorme per aumentare la distanza percorsa con ogni giro completo di pedale. Un altro salto di specie della macchina avvenne con l’introduzione del freno. Sembra che siano stati i fratelli Wright a inventare quello a contropedale: Orville e Wilbur avevano aperto un negozio di biciclette a Dayton, la Wright Cycle Company. E non è privo di fondamento dire che il loro impegno con la meccanica delle biciclette abbia anche influenzato gli esperimenti sui primi voli. Se si analizza lo schema storico del progresso tecnologico ciò che emerge, come ulteriore punto di contatto con la biologia, è il procedere per continue frenate e accelerazioni (sviluppo di un’idea, esplosione dei problemi che ne limitano la diffusione, introduzione non lineare della soluzione grazie ai «bottoni neurali o dell’innovazione» , tipicamente l’incontro multidisciplinare di più tecnologie, come nel caso dei pedali che già esistevano e di cui si trova traccia anche nei disegni di Leonardo da Vinci. O come nel caso, per appunto, del bottone che incontra l’asola, diventando una tecnologia perfetta ancora oggi in suo).
D’altra parte anche i più recenti studi dello scienziato americano Carl Woese sugli archeobatteri e sulla trasmissione orizzontale dei geni nello sviluppo della biologia della vita — gli stessi che mettono in discussione la visione di Darwin di un «albero lineare dell’evoluzione» — sembrano ancora più efficaci nel descrivere lo sviluppo tecnologico, fatto di continue ibridazioni e sovrapposizioni: la motocicletta altro non è che l’innesto del motore nella bicicletta, come, venendo ai nostri giorni, il bike sharing è la fusione tra trasformazione digitale, due ruote e telecomunicazioni. Un altro esempio di adattamento, non l’ultimo. Mobilità, genetica e telecomunicazioni. Pensiamo di essere i figli del Novecento, ma siamo in realtà i figli dell’Ottocento, quel secolo in cui con Drais, Darwin e Antonio Meucci, lasciammo i cavalli per salire su una bicicletta, un gene e un telefono, senza lasciarli più. Per inciso, riprendendo il ragionamento di Butler, non è una forma di «coscienza meccanica» quella che permette alle biciclette in condivisione di segnalarci, attraverso le applicazioni, dove sono e quanto distano da noi? Forse siamo solo noi che trasferiamo il nostro darwinismo alla tecnologia. Ma non possiamo escludere che in questo passaggio una sorta di biologia delle macchine possa prendere forma.
Nessun commento:
Posta un commento